Capitolo 4


Il giorno seguente mi svegliai con una sola intenzione in mente. Sarei dovuto tornare a casa per poter finire il mio lavoro, ma l’autobus non sarebbe passato prima di sera, il che mi dava il tempo necessario per persuadere John a venire con me, nel modo più plateale possibile: volevo andare io stesso su quella collina. Sapevo bene che se fossi ritornato indenne, senza vivere quelle strane esperienze, John avrebbe forse lasciato perdere quelle stupide superstizioni con cui gli abitanti lo avevano oppresso, e avrebbe preso l’autobus con me. Devo dire che ero davvero intrigato da come John aveva descritto quel posto, e mentre non avevo dubbi sul fatto che le sue esperienze erano corrotte, sentivo che avrebbe ben potuto essere l’argomento di un possibile articolo, o addirittura la storia di un’intera disavventura. Come scrittore, certe opportunità raramente mi si presentano davanti così.

 

 Prima di andare, parlai con John e misi in chiaro le mie intenzioni. Mi implorò di non farlo, che ciò che era ora il suo destino non doveva diventare anche il mio, ma dopo varie proteste si arrese all’idea che non mi avrebbe dissuaso, e con riluttanza accettò di partire con me per Glasgow se fossi tornato senza incidenti di natura paranormale, soprannaturale o ultraterrena.

 

 Dopo che John mi ebbe fornito alcune indicazioni – che di sicuro non avrei ottenuto dagli altri abitanti – mi feci strada verso la presunta maledetta collina. Devo ammettere che la prima volta che la vidi mi sembrò… strana. Come se non dovesse trovarsi lì. Ma ancora, presi la cosa come una suggestione ai racconti di John. L’ambiente appariva proprio come lo aveva descritto. Almeno in questo era stato accurato. La strada era ingombrata da detriti e rifiuti, e ho anche riscontrato il cancello di legno ai piedi della collina. Vi era pure una macchia di sangue su di esso, rendendo il finale della storia di John già più credibile. Al pensiero che un qualche pazzo potesse vivere lassù mi bloccai, ma se anche qualcuno avesse davvero inseguito John probabilmente ora si sarebbe spostato altrove dopo essersi confrontato con Dale e il padrone della locanda. In ogni caso, un John gravemente ferito era riuscito a fuggire, per cui mi rassicurai, sarei stato bene.

 

 Non percepii nulla fuori dall’ordinario mentre varcavo la soglia del cancello, le contorte fronde degli alberi e l’erba secca davano un’atmosfera di decadimento, ed ero sorpreso da quanto l’ambiente risultasse normale e innocuo. Tramite il sentierino che era evidentemente stato usato numerose volte negli ultimi anni, raggiunsi un punto che rievocava le descrizioni di John.

 

 Ed era lì. Nascosta dal mondo da un muro di foglie, legno marcio ed erba: la chiesa. Ero davvero sorpreso, visto che ero convinto che un edificio simile fosse solo frutto delle allucinazioni di John, e riconosco che iniziai a sentirmi un po’ innervosito dalla sua effettiva esistenza. Esitai un istante prima di procedere. Mi imbarazza il dire che se quell’area non fosse stata illuminata dalla luce del mattino, avrei considerato l’idea di ritornare indietro. Ma non lo feci.

 

 La chiesa era affascinante, ed io, come minimo, desideravo vedere se era davvero come l’aveva delineata John, con un predominante altare. Non fu difficile gettare un’occhiata all’interno, anche se fremei un poco ricordando la descrizione della porta parzialmente bloccata dai detriti, dato che si spalancò senza problemi, facendomi esitare una seconda volta. Ero lì, in piedi, sulla soglia, osservando l’interno. Era esattamente com’era stata narrata; il pavimento era coperto da macerie, provenienti da un tetto decadente, l’altare si ergeva davanti a me, l’iscrizione – la cui ora non avevo dubbi citava esattamente quello che aveva letto John – e un accesso per le cripte, verso un’ignota destinazione. Dovete sapere che in nessun frangente ho mai davvero pensato che potesse esserci qualcosa di paranormale a risiedere lì, la sola idea era ridicola; ma iniziai a mettere in dubbio la mia sicurezza. Pensare che un eremita o di un folle solitario potesse vivere al di sotto di una chiesa abbandonata non mi dava fiducia.

 

 “Salve? C’è qualcuno?” Gridai, la mia voce rimbombò tra le travi del soffitto.

 

 Non ottenendo risposte, mi rimproverai per essere stato così paranoico, ed entrai. Evitai con attenzione i detriti, notando delle macchie di sangue su un pezzo di legno rotto, intuendo appartenessero a John. Pervase la mia mente l’idea di una possibile setticemia: forse proprio la ferita al fianco aveva causato le allucinazioni, o almeno quelle che John ha avuto dopo l’incidente? Avrebbe potuto ben spiegare il suo disorientamento.

 

 L’altare dominava com’era stato descritto. Intuii che avrei avuto bisogno di qualche prova per certificare di essere stato effettivamente lì e rassicurare John, presi il mio cellulare e iniziai a scattare delle fotografie della chiesa. Ad ogni flash che illuminava l’ambiente, la mia mentre tornava a ricordare le visioni di John, di un infervorato prete e di una spaventata congregazione riunitasi sotto la protezione che offriva la chiesa – ma protezione da cosa?

 

 Voltandomi verso l’oscuro ingresso per i sotterranei dell’edificio, sentii il mio cuore accelerare alla sola idea di dover discendere quelle scale di pietra, ma mi sentivo costretto a farlo, e non solo per altruismo. Sì, volevo dimostrare a John che lì sotto non c’era nulla, e che la convinzione che fosse costretto entro i confini del paese era totalmente infondata; ma volevo anche io sapere ci potesse essere nel sottosuolo. Perché questa chiesa aveva un livello sotterraneo? Era una cripta? La mia curiosità si stava risvegliando, avevo la bava alla bocca alla possibilità di poter pubblicare un articolo su una mia scoperta, una archeologica, con magari un’importante e preziosa reliquia all’interno.

 

 Come mi avvicinai alla porta, potei percepire della fredda aria provenire da lì sotto. Aiutandomi con la luce del mio cellulare, mi tranquillizzai e sbirciai con cautela oltre quell’ingresso. Una stretta e ripida scalinata conduceva verso l’entroterra. Le pareti erano grigio scuro, sembravano scolpite nella pietra o comunque costruite con molta meno cura rispetto al resto della chiesa. Gridai una nuova volta, e ancora nessuno rispose, intuii bene che il posto era decisamente abbandonato. Mentre scendevo, rimasi sorpreso da quanto lunga fosse effettivamente quella scala, e prima di giungere alla sua fine stimai di essere almeno quindici metri sotto al pavimento dell’edificio. Mi parve inusuale che un sotterraneo fosse così scavato a fondo, e mi domandai il suo scopo – perché gli architetti, gli ingegneri o i fedeli della chiesa avrebbero dovuto scavare così in basso?

 

 Arrivato all’ultimo gradino mi diedi una calmata, e osservai ciò che si trovava in fondo a quella scalinata. La luce azzurra del telefono illuminava ogni cosa attorno. Ciò che vidi mi disturbò dal profondo; una grande stanza, il pavimento ricoperto di giornali vecchi e strappati, rocce, e ossa umane. Non potevo dire quanti erano stati lasciati lì a marcire, erano troppo numerosi. Il freddo nell’aria era pungente, mi sentii gelare non solo dalla temperatura della pietra intorno a me, ma anche dall’afflizione che stavo provando. Quasi potevo immaginare le persone riunite lì sotto, vivendo i loro ultimi attimi nascoste dalla luce del sole. La prima impressione che ebbi fu quella che tutte quelle persone erano morte proprio lì, anche se non so bene perché ero convinto di questo.

 

 Scattando ulteriori foto, mi addentrai in quella che posso solo chiamare una… fossa comune. Feci attenzione a non muovere nessun osso, ma sono desolato nel dire di aver sentito lo scricchiolio di alcuni sotto ai miei piedi. Alla destra c’era un ingresso che conduceva ad un’altra camera, e mentre non desideravo disturbare quella tomba più di quello che ormai avevo già fatto, mi sentii in dovere di andare in fondo a quella faccenda. Solo questo, cos’altro si trovava in quel sotterraneo.

 

 Sopra l’entrata c’era un cherubino di pietra, scolpito con un’eleganza artistica di alto livello, in forte contrasto con la stanza piena di ossa, ma il volto da fanciullo presentava uno strano sorriso smagliante. Non di gioia o vivacità, ma di canzonatoria e sadica soddisfazione. La sola visione di esso mi provocò disgusto, per cui entrai velocemente nella stanza per levarmelo dalla vista.

 

 Era una stanza molto più grande di quella precedente. Potevo subito intuire che qualcosa di molto importante per coloro che avevano costruito la chiesa era conservata là. Le pareti erano adorne con simboli magnificamente incisi, alcuni cristiani, ma molti altri di natura che non potei cogliere. Al centro della stanza stava un blocco di dura pietra, largo un metro. Al lato aveva un largo foro. Sulla pietra era inscritta la seguente frase:

 

Qui giace il padre. Amato da alcuni, odiato da molti.

 

Mentre meditavo su quell’elogio funebre, sbirciai dentro al buco. La fossa era vuota, ma ero sollevato di averla notata prima di girare per la camera, era larga e profonda abbastanza da concedermi una brutta caduta. Rimanere bloccati lì in fondo con una gamba rotta non era qualcosa a cui desideravo pensare. Il sudiciume all’interno della tomba era nero e pareva essere del deposito di carbone; il bordo del foro era circondato da una macchia di sporcizia. Intuii che i profanatori di tombe, o forse coloro che ‘odiavano’ questo uomo, avessero rimosso il cadavere tempo prima.

 

 L’atmosfera del luogo stava iniziando a suggestionarmi con intensità. Ogni respiro lì dentro era irregolare e mi raggelava, mi sentivo talmente a disagio che decisi di aver visto abbastanza. Facendo delle ultime fotografie per documentare quel sepolcro prima di andarmene, il flash del cellulare mi fece notare qualcosa sul pavimento. Ricoperto da fango e sporcizia stava un libro, che spuntava appena da quella porcheria. Soffiando via gentilmente la polvere da esso, lo raccolsi con cautela e lo poggiai sulla lapide improvvisata.

 

 La rilegatura era antica, si screpolava un po’ mentre passavo la mia mano sopra essa. La copertina rosso scuro, di cui non riuscivo a capire di che materiale fosse fatta, proteggeva delle perdute ma importanti storie e trasudava il tempo vissuto. Sotto sotto sapevo che un oggetto simile sarebbe dovuto essere custodito con cautela e analizzato da degli studiosi, ma come scrittore, la mia passione per i racconti mi obbligava a scoprire cosa esso contenesse. Aprendolo, rimasi estasiato. Era una cronistoria. Un diario scritto a mano sulla storia della chiesa, sulla sua congregazione e sulla collina. Una rievocazione delle persone da tempo dimenticate.

 

 Era scritto con uno stile linguisticamente confuso, le parole sembravano in scozzese antico, ma le formulazioni parevano di una lingua a me sconosciuta, una che immaginai potesse essere il celtico o il gaelico delle origini, ma in ogni caso, i passaggi in scozzese vernacolare riuscivo a capirli abbastanza a fondo. Ciò che segue è un vago ricordo di ciò che trovai scritto in esso.

 

 

***

 

 

Nel XV secolo un gruppo di profughi giunse in quell’area, alla ricerca di un luogo che potessero chiamare casa. Le valli – o glens, come sono conosciute in Scozia – erano inabitate a quell’epoca, così come la strana collina che dominava sul paesaggio. Quella gente veniva da un posto chiamato Dungorth, e stava fuggendo dal lord che governava quella regione; scappavano dalle sue persecuzioni, era governante brutale e senza pietà, puniva chiunque non seguisse i suoi ideali.

 

 In tutto non erano più di un centinaio di persone, e mentre gli anziani desideravano stabilirsi nelle glens, un insigne sacerdote fra loro sostenette che si dovessero benedire quelle terre, per assicurarsi che nessuna pestilenza potesse abbattersi sulla comunità, e che perciò il colle dovesse essere il primo punto in cuoi insediarsi – una sorta di faro di speranza che avrebbe diffuso tutt’attorno un’aura di protezione. Mentre alcuni erano un po’ titubanti a questa idea, questo sacerdote era ben conosciuto per la sua bontà e per la fiducia che si poteva dare alle sue opinioni. Scoraggiati, gli anziani decisero di seguire il suo consiglio, era tipico delle persone di quel tempo avere timore dell’autorità divina. Lì, in un sinistro e isolato luogo della collina, costruirono un piccolo insediamento, ma quasi immediatamente alcuni coloni iniziarono ad ammalarsi. Una malattia che non poteva ancora essere spiegata allora, e che spesso veniva diagnosticata come una febbrile demenza.

 

 Il sacerdote incolpò la presenza di alcuni menhir che accerchiavano quell’area, i resti – per lui, almeno – di una vecchia ed eretica religione. Venne deciso, sotto sua supervisione, di costruire una chiesa. Con la presenza di un terreno consacrato, si pensava che gli effetti di qualsiasi cosa ci fosse stata prima in quella collina sarebbero svaniti.

 

 Si sbagliavano.

 

 Nonostante i loro sforzi, l’epidemia non fece che peggiorare, e molti iniziarono a sospettare che il sacerdote stesso centrasse con quei maligni avvenimenti. Alcuni anziani si sollevarono contro di lui, ma sotto i suoi ordini, i membri della congregazione della chiesa giustiziarono coloro che si ribellarono. Temendo per le loro vite, molti coloni indignati con le scelte del sacerdote e dei suoi seguaci fuggirono durante la notte, accompagnando anche i più vecchi verso le glens. Molti ci riuscirono, ma alcuni tornarono al villaggio piangendo impauriti, credendo di essere stati rincorsi da vaghe e sovrannaturali figure, nel bosco. Per potersi salvare, giurarono eterna fedeltà al sacerdote e alla chiesa.

 

 Affermando di aver ricevuto visioni da parte dell’Onnipotente stesso, l’uomo assicurò i coloni che se avessero seguito tutte le sue istruzioni, avrebbero potuto salvarsi. Ogni notte si sarebbero dovuti riunire nella chiesa, mentre il sacerdote sputava dalla bocca le sue visioni e accuse, ribollendo di rabbia e odio per coloro che avevano osato andarsene. Divenne chiaro a molti che fosse divenuto pazzo, ma prima che se ne rendessero conto l’uomo aveva già formato un saldo e brutalmente fedele seguito di fedeli, che pendevano dalle sue labbra ad ogni parola o profezia che esse pronunciavano, ed ogni ribellione diveniva violenta, sanguinosa e subito repressa.

 

 Molti iniziarono ad avere sogni confusi, oscurati dal buio, e diverse famiglie vennero ritrovate nelle loro abitazioni, soffocate durante la notte. Il sacerdote incolpò coloro che se ne erano fuggiti via, e iniziò a raccontare su come loro fossero la sorgente della maledizione che stava perseguitando la comunità, condannandola ad una disperata fine. Il rancore e la rabbia iniziarono a farsi largo tra i fedeli, e diversi coloni vennero scelti per discendere la collina e riportare gli anziani al villaggio, dovevano essere giudicati e, se necessario, sacrificati. Ma nessuno poteva andarsene. Non importa quanto sforzo ci mettessero, la chiesa non pareva allontanarsi, non importa quale strada avrebbero scelto di percorrere, se in salita o in discesa, sarebbero comunque ritornati al punto di partenza, confusi e disorientati.

 

 La piaga continuava a diffondersi, le guardie del villaggio, una dopo l’altra, vennero trovate morte soffocate e mutilate per le strade, con testimoni che affermavano di aver visto delle strane entità aggirarsi furtivamente durante la notte. In preda alla paura, coloro che erano rimasti non ebbero altra soluzione se non aggrapparsi alla loro religione di salvezza, nella speranza che la chiesa li avrebbe protetti. Si riunivano assieme sotto al suo tetto, miserabili, timorosi di ciò che si stava avvicinando dall’oscurità esterna.

 

 Da qui, la scrittura cambiò notevolmente, divenendo più frastagliata, ardente, calcata. Lo stesso sacerdote aveva sostituito il cronista del villaggio, ritenendolo insoddisfacente. Diverse pagine a seguire presentavano degli spezzoni in inglese, aggrovigliato a quello che pareva latino, e un certo numero di non più utilizzate ed indecifrabili altre lingue. Ogni pagina trasudava amarezza e disprezzo per coloro che erano fuggiti, e poi, le parole semplicemente finirono.

 

 

***

 

 

In piedi in quel luogo stigio e angosciante, feci scorrere le mie dita sul dorso del libro, per notare che l’ultima pagina era stata chiaramente strappata via. Cosa avesse potuto contenere, non ne ho idea.

 

 Rimasi sopraffatto nel riconsiderare tutto quello che avevo letto, ed una palpabile e profonda paura crebbe nel mio corpo. Ciò a cui mi venne da pensare, fu che quelle testimonianze riguardo la pestilenza che aveva colpito gli esiliati di Dungorth ricalcavano bene le simili esperienze di John. Non potevo ignorare questa coincidenza, iniziai quindi a sospettare che qualcosa fosse effettivamente accaduto a John; qualcosa di concreto, intendo. Probabilmente una contaminazione del terreno. Un qualche avvelenamento? Avevo letto di giacimenti di metano che esalavano il gas attraverso la terra o il mare, uccidendo diverse persone, e non era proprio insensato che, magari in dose molto minore, questo potesse provocare allucinazioni, malessere o addirittura delirio. Era la spiegazione più realistica a cui potei pensare. Ma quindi, perché io non ne presentavo i sintomi? Forse, così come stava scritto nel diario, alcune persone risultavano più immuni all’avvelenamento rispetto ad altre.

 

 La mia attenzione si rivolse una nuova volta alla tomba, o a quello che almeno era rimasto di essa. Mi chiedevo cosa quei coloni avessero fatto del corpo del loro amato – e odiato – sacerdote, immaginando che fosse lui il ‘padre’ a cui l’iscrizione si riferiva. Lo avevano forse risepolto in un’altra ubicazione? Magari i suoi seguaci temevano che la sua tomba potesse venir vandalizzata. Una risposta divenne chiara quasi immediatamente: lo avevano cremato nella sua tomba, sotto la stessa chiesa che egli aveva fatto costruire; la buca dove una volta giaceva il suo corpo era infatti marchiata da delle macchie nerastre di fumo e braci. Rabbrividii al pensare che potesse essere stato gettato lì sotto e dato alle fiamme ancora vivo.

 

 L’aria divenne decisamente più fredda, ma non fu questo a scatenare l’inizio del mio calvario. Mi sporsi in avanti, osservando da più vicino il bordo della tomba. Non riuscivo a crederci. Lì, sull’orlo della buca c’era un brutale segno lasciato dal pastore della chiesa. Nell’oscurità non dovevo averlo notato, ma ora era inconfondibile. Proprio sul ciglio della tomba c’era l’impronta di una mano, annerita e carbonizzata, come se qualcuno avesse cercato di fuggire dalla sua eterna e dimenticata fossa.

 

 Il mio respiro formava delle nuvolette dalla mia bocca, condensandosi a causa dell’ambiente gelido, mentre il battito del mio cuore accelerò al solo immaginare cosa fosse uscito da quella buca. L’aria diveniva sempre più congelata, decisi di rialzarmi e andare verso le scale – dovevo uscire da lì, andare sotto la luce del sole, all’aria aperta. Fu allora che lo udii. All’inizio mi parve solo di aver sentito quel rumore. Poi però divenne più definito, sempre più intenso e nitido. Qualcosa stava accadendo al piano di sopra.

 

 Persone. Un sacco di persone, gemendo e lamentandosi, pregando all’unisono per le loro vite. Cantilene nell’oscurità, sia cristiane che di origine più antica, di una fetida religione che da tempo aveva abbandonato quella terra. Mentre i tormentati pianti aumentavano, un’unica voce si levò da quel coro. Terribile ed assordante, parlò della fine dei giorni, dei tradimenti, e di irremissibili peccati. Quella voce urlava, gridava, rinnegando tutti coloro che non la ascoltavano, una predica di vendetta dall’altare. Non posso esprimere a parole il terrore che provai. Da solo, immerso nel freddo buio di una dissacrata cripta, con nessuna altra via di uscita se non quella che portava alle navate della chiesa, là dove qualcosa di tremendo stava riprendendo vita, rivivendo terribili e dimenticati tempi. I canti divennero sempre più forti, mentre i rumorosi e strascicati passi si avvicinavano agli scalini, si avvicinavano a dove ero io. Vi era un grande rancore nelle loro voci, corsi via preso dal panico non appena iniziarono a discendere le scale verso di me.

 

 Senza nemmeno pensarci, saltai nella buca della tomba, spegnendo la torcia del mio cellulare e facendomi piccolo piccolo, scosso fino al midollo da quelle agonizzanti voci che si levavano contro il mondo. I boati crebbero, uomini, donne, bambini in lacrime che maledicevano un Dio che credevano si fosse dimenticato di loro. Accuse, persecuzioni, carne squarciata. Poi, silenzio. Mi raggomitolai sul fondo di quella tomba bruciata, le mie unghie conficcate in quello sporco. Ogni scetticismo che avevo per tutte le forze sovrannaturali o nascoste era svanito. Tremando in quella fredda desolazione, aspettai diversi minuti prima di riaccendere la luce del cellulare.

 

 Sbirciando oltre l’orlo della fossa, mi arrampicai silenziosamente per uscire. Le due camere erano completamente vuote, se non per le ossa rotte e i teschi di indecifrabili vite, rovinate da quel qualsiasi cosa che contaminava quel colle. Recuperai un po’ di coraggio e fegato, tutte le mie convinzioni e sicurezze in frantumi, e risalii gli scalini molto lentamente, paralizzato dalla paura al solo pensiero di che cosa potesse starmi aspettando lì sopra, era la mia unica via di uscita, o sarei potuto essere condannato a finire i miei giorni allo stesso modo di quelle povere persone, rinchiuso in quell’antro sotterraneo.

 

 La chiesa era vuota. Nel modo più silenzioso possibile, attraversai la navata evitando con cautela, ma con velocità, le macerie, attraversai quell’opprimente silenzio, per poi finalmente uscire tramite il portone di entrata, all’aria aperta. Una volta fuori da quella chiesa caddi sulle mie ginocchia, fremendo e ansimando, mentre cercavo di ricostruire mentalmente tutta l’esperienza appena vissuta. La mia mente mi riportò a ciò che sarebbe dovuto esserci in quella tomba, o cosa più importante, fantasticava su dove quella cosa fosse adesso. Poi lo capii. Correndo il più possibile attraverso i cespugli e le sterpaglie, raggiunsi rapidamente il sentiero, fregandomene di qualsiasi presenza maligna che avrebbe dovuto ostacolarmi secondo le credenze dei coloni, non mi fermai, riempito per metà dall’orrore di essere inseguito, per metà dalla speranza che il mio istinto si sbagliasse.

 

 Mi bruciavano i polmoni mentre mi affrettavo lungo quella stradina sterrata, nel giro di pochi minuti il cancello di legno sarebbe entrato nel mio campo visivo e me ne sarei andato da quella disgraziata collina, luogo in cui non avrei mai più messo piede. Neanche per soldi, né un articolo, per niente. Avrei tirato un sospiro di sollievo a questa idea, ma non potevo permettermelo. Dovevo tornare velocemente alla locanda. Continuando a correre come mai avevo fatto, sfidai la stanchezza e i limiti del mio corpo, e dopo tutto quel tempo passato tra campi e siepi, finalmente il ‘Laird of Dungorth’ apparve nella mia visuale.

 

 Barcollando verso quel vecchio edificio, fu allora che lo udii. Un urlo, di agonia, terrore, un urlo che chiedeva pietà. Capii subito dove e di chi fosse. Un nuovo avvampare di energia mi travolse mentre mi gettavo in corsa per la seconda volta, irrompendo dentro la locanda. Lì, la stanza era silenziosa. Gli abitanti stavano seduti a fissare i loro drink, mentre il padrone rimaneva in piedi, immobile, con gli occhi puntati a terra. Le urla continuarono dalle stanze al piano superiore. Pregai, supplicai, che qualcuno mi desse un aiuto, ma nessuno ascoltava. Realizzai che avrei dovuto cavarmela da solo, mi fiondai su per le scale, ma il padrone della locanda intervenne con la forza, tirandomi indietro, con le braccia che circondavano le mie spalle.

 

 “Lascialo, figliuolo, non puoi aiutarlo!” Esclamò impetuoso, mentre altri due uomini cercarono di trattenermi.

Conficcai il mio gomito all’altezza del suo stomaco e mi lanciai oltre gli altri due uomini, spingendone a terra uno. Affrettandomi per le scale, seguii quei terribili lamenti, verso la stanza di John. La porta era chiusa. Mi buttai contro la porta con la spalla, più e più volte, essa si incrinava e scheggiava sotto la mia forza. Ad ogni colpo, sentivo il confuso rantolare di qualcosa di innaturale come risposta. Alla fine, la porta cedette e potei entrare.

 

 Per un attimo intravidi qualcosa che somigliava ad un uomo, o comunque qualcosa che una volta era in vita. Bruciato e annerito, quello girò la testa verso di me, come per fissarmi – non posso dire se davvero riuscisse a vedermi, poiché non aveva nessun genere di occhi. Nella sua presa giaceva il corpo inerme e senza vita di John R———.

 

 Poi, si voltò, strisciando oltre la finestra aperta, trascinando con sé il cadavere del pover uomo. Entrambi se ne erano andati.

 

 

 La camera iniziò ad avere un aspetto fluido, instabile. Non so se fosse a causa della fatica o per il confronto avuto con quella grottesca mostruosità, ma un malessere mi sopraffece, dal mio stomaco, e poco prima di perdere conoscenza, lanciai, impotente, un grido.


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